Gorom-Gorom

Gorom-Gorom (il suo nome significa, nel linguaggio Songhai, “sedetevi, sediamoci”) si trova nel nord-est del Burkina Faso, circa 290 km a nord-est di Ouagadougou, è una tipica città del Sahel immersa in un mare di dune e spazzata dai venti. È l’ultima città prima del deserto solitario di dune e silenzi sibilanti. A Gorom-Gorom si soggiorna in puro stile sudanese immergendosi completamente nell’atmosfera della vita del Sahel. La popolazione prevalentemente nomade è composta soprattutto da Tuareg (‘gli uomini blu del deserto’), Peul, Maure e Songhaï. Ha un antico quartiere molto pittoresco, un dedalo di case in mattoni banco (fango) e una serie di piccole e graziose moschee merlate dalle sagome gentili . Ogni giovedì si tiene un famosissimo mercato, e  senza dubbio il più grande, colorato e interessante del Burkina Faso, se non dell’intero Sahel. I gruppi etnici del Sahel e del Sahara qui si mescolano armoniosamente: ci sono i pastori tuareg vestiti di indaco, i pastori peul e gli agricoltori songhaï con vesti giallo brillante e turbanti rossi, e le donne peul con boubou (vesti) dai colori vivaci, i capelli intrecciati con perle e gioielli, e gli orecchini rotondi d’oro e d’argento. Gli uomini portano cinture di cuoio ed elaborate spade d’argento. E tutto questo senza contare i bizzarri cibi e oggetti d’artigianato del deserto. Vi si può trovare di tutto: vasellame di terracotta, spezie e granaglie, carne, vestiti, stoffe oltre  i generi alimentari tipici del deserto: i dolci datteri, il lait caillé (latte cagliato). In un angolo a parte, è in vendita anche prezioso bestiame: capre, pecore, muli, bufali ed altro.

Dal diario di viaggio di Franco

L’ho visto muovere verso di noi appena scesi dal pullmino, al mercato di Gorom-Gorom. Aveva una andatura veloce, ma al tempo stesso affaticata, timida, circospetta, che lo portava quasi  strisciare i piedi nudi sulla strada polverosa. Era uno scricciolo con il visino smunto e gli occhi tristi, il corpicino sottile affogato in una camicia di jeans sporca e sdrucita, di almeno 2-3 taglie più grande, che gli arrivava fino alle ginocchia. Tra le braccia, stretta gelosamente al petto, aveva una grossa ciotola metallica, lucida e vuota, che mostrava timidamente, biascicando qualche parola appena udibile e incomprensibile, ma il cui senso era chiaro: “una moneta, un boccone, qualsiasi cosa…”. Avrà avuto 8-9 anni.  Non avevamo cibo con noi in quel momento, né monete, nelle tasche solo biglietti di grosso taglio. Per lunghi minuti rimase perciò in attesa nei paraggi, con viso affranto e occhi supplichevoli. Poi è arrivata Stefania, che aveva appena cambiato moneta nell’Ufficio Postale alle nostre spalle e che, senza parole, gli ha poggiato nella mano destra un soldino da 100 Franchi (15 cent di Euro). Dapprima lui esaminò con occhi sorpresi e attenti la moneta, immediatamente dovette realizzare che poteva bastare, la serrò forte nel pugno e, tra lo stupore divertito di tutti, si diede ad una corsa  precipitosa, come un leprotto inseguito da una torma di cani, ogni tanto girandosi indietro per assicurarsi che nessuno lo inseguisse, fino a che non lo vedemmo sparire alla prima curva, inghiottito dal buio di un locale. Tutti pensammo che avesse portato il soldino al suo sfruttatore, magari orgoglioso del lavoro compiuto. Lo abbiamo trovato ancora – qualche ora più tardi, di ritorno dal mercato – fermo accanto al pulmino. Con il braccio sinistro stringeva sempre, con atteggiamento geloso, la sua ciotola di  metallo al petto, mentre con la mano destra vi attingeva grossi bocconi di una poltiglia che portava alla bocca già piena con gesti avidi e veloci. Allora realizzai che non era circospezione la sua andatura affaticata e incerta, non era timidezza il suo flebile biascicare parole incomprensibili. Era fame. Semplicemente fame. La fame di chissà quanti giorni, che ormai gli toglieva la forza dalle gambe e il fiato dalle parole. L’espressione con la quale l’ho guardato doveva essere davvero stupita e strana, perché mi sono sentito chiamare da un signore seduto su una panchina alle mie spalle, che evidentemente aveva seguito tutta la scena: “Companero, companero, il n’a pas parents!”. E’ stato come ricevere una frustata. Mi sono girato e, mentre un brivido mi scorreva lungo la schiena, gli ho dato quella risposta. La risposta più vigliacca che potessi dare: “Monsieur, nous avons déjà donné de l’argent, je ne peux pas prendre tout le Burkina sur mes époux!” Ciao bambino, ciao piccolo orfano affamato di Gorom-Gorom, che mi guardavi con occhi tristi e con un sorriso appena abbozzato mentre ti salutavo dal vetro del pulmino che ci portava via. Non ti ho chiesto neppure il nome. Potrai mai perdonarmi se, andando via, non ho saputo far altro che darti una banana? Potrò io mai perdonarmi?